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Non è il desiderio di buttarsi
09.11.2021
Onestamente mi ero dimenticata di dover scrivere questa rubrica, mi ero dimenticata di dover fare un resoconto di un anno che ne ha avuti almeno cinque al suo interno, mi ero dimenticata che prima o poi sarei dovuta scendere a patti con il passare dei giorni e delle mie scelte.
Siamo al numero 3, quindi le aspettative sono alte e la responsabilità ancora di più. Questa colonna era nata con l’obiettivo di razionalizzare e mettere nero su bianco qualcosa di illogico come l’imprevedibilità della vita e le montagne russe che sono le emozioni e con esse le relazioni, ora è diventato quasi un passatempo terapeutico, una sorta di salvataggio di sicurezza da far partire alla fine della giornata per non dimenticarsi i progressi fatti nel gioco. Nel 2019 mi convincevo di non essere il tipo da amori travolgenti di cui si legge nei libri. Nel 2020 mi smentivo spudoratamente dichiarando apertamente di esserci cascata come una castagna in autunno e di aver ceduto all’incontro cliché del ragazzo che ti stravolge la vita tra un treno ed una galleria d’arte veneziana e ora, beh ora è un casino. Con la fine del 2021 verranno scanditi i miei primi due anni e mezzo di una relazione seria e consapevole che a volte sembra incredibile pure a me.
Ma se dobbiamo parlare di relazioni, di amore, di vita, non si parla mai solo di noi stessi e non si parla mai solo di quella persona con cui si condivide tanto.
Quindi lo dico già: parlerò di arte, parlerò di cuori spezzati e delusioni, parlerò di persone che se ne sono andate troppo presto, parlerò di respiri profondi e decisioni dell’ultimo minuto.
Il terrore delle fiamme
La verità però è che in questi ultimi dodici mesi è successo molto di più nella mia vita che la mera sfida di sopravvivere al flagello di una storia d’amore. In tutta onestà, se pensavo che il 2020 fosse stato un anno discutibile, giusto per non usare francesismi, il 2021 è stato la gemella cattiva delle telenovela sudamericane che arriva inaspettata e distrugge tutti gli equilibri creati con fatica nelle ultime 17 stagioni.
Abbiamo fatto un grande salto nel vuoto (e in Zoom Calls, app d’incontri online e social media) costretti da questa pandemia a scegliere l’alternativa con meno conseguenze negative. In un certo senso, siamo stati in piedi tra gli uomini bloccati sul ciglio delle finestre di cui scrive David Foster Wallace, che trovatisi in un palazzo in fiamme, improvvisamente contemplano l’idea della caduta, perché l’alternativa è ben più spaventosa. In molte situazioni, ci siamo lasciati andare alla nostra personale caduta dal grattacielo per non finire noi stessi bruciati dalle circostanze che ci circondano. Ci siamo salvati dalle scottature pesanti, ma le ossa rotte le abbiamo tutti.
Le mie in particolare sono andate in pezzi il 02 gennaio 2021 e sono ancora ben lontane dalla loro forma originale, nonostante i tentativi di tamponare le ferite. Perdere qualcuno così pieno di vita, elegante e fondamentale, senza poterlo salutare o riuscire a salvarlo quando ne ha più bisogno, ti lacera come poche altre cose riescono a fare. Mi sono riempita la testa e il cuore di ipotesi ed “e se…” e non riesco a capacitarmi né ad accettare il fatto che questa pandemia sia riuscita anche a strapparci una persona così e in tutta onestà non voglio accettarlo. Il mio anno è iniziato nel nero della disperazione e del lutto e dopo tutti questi mesi sono riuscita a trasformarlo solo in un grigio antracite con intarsi più chiari qui e lì.
In una manciata di mesi ho visto il mondo intorno a me cambiare radicalmente e ho visto me stessa non riuscire a stare al passo, per poi invece essere più veloce di lui e quasi prevederlo in altri momenti.
Una cosa l’ho capita, però, e cioè che c’è uno strano corso di evoluzione delle nostre vite e delle nostre certezze e per quanto proviamo a prevederle o a comprenderle troveranno sempre il modo per farci rimanere a bocca aperta, nel bene e nel male.
Quello che ci meritiamo
Per iniziare questo paragrafo invece voglio raccontarvi una storia. I protagonisti sono due bambini di sei anni, ogni giorno si vedono attraverso le sbarre dei loro giardini: uno gira con una Ferrari elettrica (che chiameremo F) e l’altro ha una Ducati in miniatura (che sarà D). Un giorno uno dei due prende coraggio e suona al campanello dell’altro. Passano attraverso tutte le possibili fasi di moto, macchine e di vita, dai motorini alle Harley, dalle cotte alle responsabilità da adulti. Un giorno comprano una Ducati bianca e decidono di ristrutturarla insieme, di renderla opaca e di fare degli aggiustamenti al motore. Finché non succede che un giorno D fa un incidente e per la prima volta in trent’anni, forse quarant’anni, si devono separare definitivamente. A questo punto non vi biasimerei se mi mandaste a quel paese, viene spontaneo domandarsi “perché mai dovremmo meritarci un’amicizia così bella, ma strappata così presto”? Perché penso che tutti noi ci meritiamo l’amico che rimane. Nella disperazione e confusione della perdita, la Ducati bianca, che tanto era stata importante, viene regalata ad una persona che la rivende dopo pochi mesi solo per guadagnarci qualcosa. Passano quindici anni e F ci invita nel suo garage in cui custodisce tutte le moto e le auto d’epoca. “Ci ho messo quindici anni, ma alla fine l’ho trovata!” e indica poco più in là una Ducati bianca opaca. Vicino a quella c’è una piccola moto elettrica, da bambini, tutta graffiata e vecchia, ma ancora in piedi e tenuta come meglio si potesse, “adesso ho la sua prima e la sua ultima moto”. Questo è quello che ci meritiamo: una persona che per averci vicino passa 15 anni a cercare qualcosa solo perché sa che ci avrebbe fatto piacere, qualcuno per cui siamo così importanti da esistere anche quando non ci siamo più.
Ho commesso tanti errori in questo passato anno e penso di aver chiesto – e dover ancora chiedere – scusa a diverse persone. Credo anche che diverse persone debbano a me delle scuse e delle spiegazioni. Però so che il mio orgoglio e il mio eterno tentativo di dimostrare che in qualche modo alla fine avevo ragione io si stiano finalmente affievolendo, lasciando spazio alla consapevolezza che se si provoca dolore a qualcuno si abbassa la testa e si cerca di sistemare quello che si è rotto. È vero che le persone che soffrono, fanno soffrire gli altri, e come so che è stato fatto a me, allo stesso modo so di aver provocato io questo tipo di dolore. C’è chi si è sentito colpito (non in senso buono) da me e che di rimando mi ha fatto male. Altre che sono semplicemente andate per la loro strada, altre ancora sono stata io stessa a indicare loro la direzione opposta alla mia, ma innegabile è il dolore e la delusione per la perdita o la distanza di quelli che pensavi sarebbero stati seduti sul divano arancione al bar come in un bel remake di Friends. Ho perso fiducia, stima e mi è stato sbattuto in faccia che un cuore spezzato non te lo provoca solo il fidanzatino di turno, ma chiunque abbia avuto accesso al tuo incondizionato e incommensurabile amore.
Una mente aperta non è una frattura del cranio
Ora, parliamo inevitabilmente di due anni ed una manciata di mesi in cui il leone è sopravvissuto all’acquario e viceversa, o per chi non ha alcun interesse per l’astrologia “il mio più lungo tempo di resistenza in una relazione”. Non pensavo di soffermarmi per più di qualche riga su questo argomento perché va davvero tutto bene. Poi mi sono resa conto che quando ci si limita a descrivere un qualsiasi aspetto della propria vita con queste parole o ci si è talmente abituati che diventa una banale abitudine o si sta mentendo. Nel mio caso non è nessuna delle due, quindi lasciate che mi spieghi.
Prendere le misure: inizierei così, con un verbo all’infinito. Dopo tutto questo tempo ormai direi che abbiamo pagine e pagine di quaderni con le descrizioni dettagliate dei millimetri dei nostri limiti e di conseguenza iniziamo a conoscerci (e riconoscerci) con le luci spente e le serrande abbassate.
“Non siamo il tipo di ragazzi coccole e bacini, ma facciamo selfie mossi al reparto vini” dicevo all’inizio e ne ho per ora solo avuto la conferma, non siamo la #couplegoal che ha nella galleria solo scatti pronti per una copertina al meglio di Pinterest, falliremmo tutti i possibili trend che TikTok potrebbe mai creare e se si gioca a Taboo, Pictionary o Charades non possiamo stare in squadra assieme perché semplicemente non ci intendiamo. Siamo diversi, tanto, e abbiamo imparato che per quanto ci proviamo alcune di queste differenze rimarranno tali e devono essere accettate senza prese di posizione o punti di discussione. Perché io continuerò a mettere i pantaloni larghi e lui non mi darà mai la soddisfazione di vederlo indossare un dolce vita, lui continuerà a odiare l’arte, mentre io passerò le mie giornate a lavorare in ogni galleria mi darà la possibilità di farlo. Siamo diversi, agli antipodi per certi versi, e a volte i compromessi sono difficili da trovare. A volte mi chiedo pure se servano i compromessi o se certe cose vadano semplicemente accettate per quello che sono, ma purtroppo non ho ancora una risposta.
Certo è che l’unico modo per sopperire a queste differenze è dire le cose come stanno, e da questa frase si possono trarre due fondamentali lezioni di vita: non comportarti come l’altro vorrebbe ti comportassi e parla.
Stavo parlando qualche giorno fa con un ragazzo – per cui devo ammetterlo mi sarei presa una bella cotta se la mia vita fosse stata diversa – biondo, inglese, appassionato d’arte e di rinascimento italiano, con strani gusti per l’abbigliamento, gemelli e con una preferenza per Londra rispetto a New York, in poche parole ai più completi antipodi rispetto alla persona di cui sono innamorata da qualche anno. Durante una passeggiata notturna per le calli di Venezia, mi ha confessato che effettivamente aveva avuto una cotta per me e che non mi ero solo immaginata il flirt velato durante le nostre ore davanti a Pollock, Magritte, Dalì e Kandinskij. Qualcuno ha detto che sono proprio le ultime parole a rovinare tutto e infatti poco dopo ha aggiunto “in realtà avevo una cotta per te, però era quando pensavo fossi dolce e timida, invece sei molto più frizzante ed energica di come ti aspettavo”. Mi sono messa a ridere sul momento e poi ovviamente, da overthinker quale sono, ho iniziato a riempirmi di pare e di riflessioni. Così appena ne ho avuto l’occasione ho chiesto a colui che mi sopporta da anni (mio moroso) quale parte preferisse di me e la sua risposta è stata (parafrasando) “non mi interessa quale parte sia, purché tu sia autentica. Se vuoi essere frizzante o tranquilla non è importante, però deve essere quello che sei veramente, perché non mi piaci quando non sei tu”. Ora, penso che la differenza sia palese. C’è un motivo per cui uno dei due è, e rimarrà, solo un tipo che ho conosciuto una volta e che mi raccontava d’arte.
Però un rimprovero me lo devo fare, e cioè ho fatto un errore grande quest’anno: ho dato tanto, troppo, per scontato. Ho sempre preteso tanto dalle persone che mi stavano intorno ed ero convinta di dar loro tanto amore, attenzioni e dimostrazioni, finché non mi sono resa conto del fatto che forse per davvero mi stavo dimenticando di qualcosa. Ieri sera la mia cara amica Polly mi ha dato una pacca sul braccio e mi ha detto “le persone non sono nella tua testa, scema. Se certe cose non le dici o non le dimostri esplicitamente, semplicemente non le sanno” poi ha aggiunto un insulto in napoletano che non sono in grado di replicare, e aveva ragione. Ho la fortuna di stare con una persona che ha un modo tutto suo di mostrare affetto, che ripone in me una fiducia cieca e non manca mai di dirmi a suo modo quanto io valga per lui, e per quanto da parte mia fosse ovvio l’incondizionato amore nei suoi confronti, perché nella mia testa ci vivo e i miei pensieri li conosco per nome, ho dato per scontato che lo sapesse e che non servisse (e non fosse importante per lui) che io facessi lo stesso. Inutile dire che è una stupidata.
Quindi taglio corto perché ho da andare ad organizzare qualche sorpresa per recuperare 😉
E poi torna tutto a noi
Quindi dopo la perdita e la delusione, fra alti e bassi di momenti di indimenticabile felicità, il frisbee che abbiamo lanciato torna fra le nostre mani e possiamo contare i bozzetti e le ammaccature guadagnate. Per ogni amico perso, uno è tornato o è stato scoperto, per ogni vita che ci ha lasciato, un’altra è venuta al mondo con grandi occhi azzurri e capelli biondissimi, per ogni attimo di tristezza e confusione, ne ho ottenuto in cambio uno di straordinaria bellezza.
A lavorare in un museo impari a capire che per trasformare una semplice tela in un’opera d’arte serve un mix complesso e delicato di elementi contrastanti e perfettamente combacianti. Un paradosso di luce e buio che convive con decine di dettagli quasi impercettibili che una volta compresi cambiano l’intero significato dell’opera. Sai che per il cubismo non esiste un solo momento, una solo prospettiva o un solo punto di vista, ma per vedere davvero devi analizzare tutte le sfumature e le possibilità. Sai che Pollock dipingeva con la tela per terra perché tutto il corpo doveva essere coinvolto nella creazione, perché si metteva completamente a disposizione per ottenere qualcosa di potente e nel suo caos apparente costruiva un’impeccabile immagine minuziosamente eseguita nel suo più minimo centimetro. Sai che il surrealismo voleva creare parallelismi conflittuali, esponendo la vera natura umana ed esplorando l’inconscio e quello che nascondiamo nelle parti più recondite della nostra mente, strappando una risposta empatica da chi guarda.
Da sempre penso che ci sia un grande legame tra l’arte, la nostra percezione di essa e il modo in cui ci relazioniamo con noi stessi e con gli altri, ecco perché da questo mix di piccoli dettagli puoi capire un quadro ma anche una persona.
Ho riscoperto una parola ultimamente, “mozzafiato”, in inglese “breathtaking”, che indica letteralmente la condizione per cui ti manca il respiro. Usiamo questa parola per descrivere qualcosa di così strabiliante da lasciarci senza parole, da far perdere un battito al nostro cuore e impedire all’aria di entrare nei polmoni. Per un istante è come sentirsi morire, ma il fatto che quella fine non arrivi mai riesce a darci una scarica di adrenalina da farci credere di poter fare qualsiasi cosa. Il 2021 è stato mozzafiato. Perché ci ha tenuti con il fiato sospeso sul punto di mollare tutto e mandare a quel paese qualsiasi cosa per poi riprenderci in corsa un attimo prima. È stato l’anno in cui l’Italia ha vinto l’impensabile, l’anno in cui ho scoperto che il mio primo amore si è fidanzato con una ragazza splendida e in cui mi sono sentita contenta per lui e per loro, nel profondo, come non pensavo sarebbe stato possibile, l’anno in cui ho riscoperto l’arte perché mi è stata spiegata con un’attenzione ed una passione che mi ha fatto emozionare, l’anno in cui mi sono chiesta se l’amore possa diventare semplicemente “normale” e in cui onestamente ho capito che no, quando diventa ordinario vuol dire che non gli stai prestando abbastanza attenzione, l’anno in cui ho letto tanti, TANTI, libri, biografie, saggi, fanfiction e storie da Wattpad e co. (lo devo ammettere, è il mio guilty pleasure, e devo pure essere onesta e dire che sono stata incollata allo schermo per ore per capire dove si andasse a parare, non me ne pento e accetto tutte le prese in giro del caso). L’anno in cui ho capito che certe storie è meglio che rimangano nei libri perché nella realtà non stanno in piedi e l’anno in cui ho finalmente capito che la libertà e l’indipendenza le puoi avere in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo. L’anno in cui sono tornata adolescente, ho fatto l’alba 10 volte in un’estate, in cui mi sono imposta di pensare di meno e vivermela di più, l’anno in cui la parola d’ordine quando si poteva era “Fuck it!” nella versione italiana di un elegantissimo “echissenefrega”. L’anno che mi ha portato via tante, tantissime cose, senza troppe spiegazioni. L’anno che ho detestato con tutta me stessa e che non avrei bocciato solo per non dovermelo trovare di nuovo al prossimo appello. L’anno in cui mi sono innamorata ancora di più e di nuovo, di un sacco di cose: delle focacce liguri, dei foulard di Prada, delle confessioni in piena notte, delle vecchie foto, delle composizioni di Helion, dei calici di Bracchetto, di Parigi negli anni ’20, degli anelli, del verde, di chiunque sia madrelingua inglese, del mio acquario e dei porri.
Trovatevi qualcosa di cui innamorarvi, ogni giorno, qualcosa di piccolo e che magari non vi cambierà la vita, ma che vi aiuterà a viverla un po’ meglio. Diffidate di chi non lo fa. Innamoratevi delle piccole cose, perché i grandi amori vi portano avanti fino alla fine della vostra vita, in inglese suona meglio “get through life”, ma i dettagli e le piccole soddisfazioni vi fanno arrivare a fine giornata, magari pure con il sorriso.
Oggi mi sono innamorata del cappuccino Gingseng, con il quale ho una relazione stabile da qualche mese, delle coperte di lana e dei tagli giapponesi/coreani nei vestiti.
Mi sono chiamata codarda e poi ho pensato di esserci passata oltre e di aver finalmente capito qualcosa, con il 2021 posso dire di aver capito che non serve ad un emerito niente provare a capirci qualcosa perché tanto succederà quello che deve succedere e noi possiamo solo cercare di fare il massimo, dare tutto di noi stessi, vivercela a pieno e ascoltare come tira il vento per aggiustare le nostre vele. Per il telefono, ormai immancabile appuntamento di chiusura di questa rubrica, mi porto in giro il power bank e se c’è da stare fuori tutta la notte a correre verso il mare, sotto le montagne o fra le calli veneziane faremo anche quello.
E se dovesse iniziare a piovere, tanto vale metterci a ballare, non perché desideriamo prendere l’acqua e rischiare di ammalarci, ma perché a volte è più pericoloso stare fermi che lasciarsi andare.
“Non è il desiderio di buttarsi, ma la paura delle fiamme.” David Foster Wallace
-Elena Marzari
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