Lezioni dal passato: la minigonna

La minigonna è diventata un indumento che tutte le donne e le ragazze oggi possiedono nel proprio armadio. Ma qual è l’origine di questo capo d’abbigliamento e che significato ha avuto?

Il bisogno di accorciare le gonne nasce per motivi principalmente pratici e ben prima dell’invenzione della minigonna nel 1963. All’inizio del Novecento, infatti, le donne operaie indossavano già i pantaloni – capo d’abbigliamento principalmente maschile – a vantaggio di una maggiore libertà di movimento nelle fabbriche. Negli anni ’20, per quanto riguarda la lunghezza della gonna, questa comincia ad accorciarsi fino ad arrivare appena sotto al ginocchio, a partire dall’intuizione della stilista Coco Chanel, ma non arriverà molto velocemente all’uso comune, anche a causa della Seconda guerra mondiale. Tuttavia, tra gli anni Venti e Quaranta, in particolare nel mondo dello spettacolo, non mancano le figure femminili – chiamate anche pin-up o sex-symbols – rappresentate principalmente in abiti succinti e quindi anche molto corti.

Si dovranno però aspettare gli anni ’60 per l’appunto, perché la minigonna venga utilizzata da tutte le donne. La sua invenzione viene attribuita a Mary Quant, stilista britannica, che già a partire dagli anni ’50 aveva iniziato a proporre abiti sempre più corti. Le minigonne all’inizio non erano poi così corte, appena 5cm sopra il ginocchio, ma, con il passare del tempo, iniziarono ad accorciarsi sempre di più. Questo perché le donne dell’epoca stavano richiedendo abiti sempre più corti, segno di riscoperta di una nuova libertà: la libertà di mostrare il proprio corpo e di ribellarsi contro le convenzioni sociali. Le giovani donne degli anni Sessanta volevano, infatti, dimostrare che si poteva vivere in modo diverso: volevano rompere quegli schemi sociali imposti dal “boom economico” degli anni Cinquanta e che avevano sottoposto le madri di queste giovani al rispetto del ruolo della così chiamata “happy housewife”, segregandole in casa nel ruolo di mogli, madri e consumatrici perfette. Lo spirito di ribellione degli anni Sessanta passò anche attraverso la moda, rompendo così la tradizione della gonna sotto il ginocchio, simbolo di oppressione delle donne nei ruoli sociali a loro imposti. Questa rottura con un passato oppressivo permise alle donne, inoltre, di scoprire un nuovo modo per relazionarsi con il proprio corpo e cambiò il modo di sentirsi femminili. La minigonna fu anche simbolo di una maggiore libertà sessuale rivendicata dalle donne, contro la repressione sessuale vissuta dalle loro madri.
Il mostrare le gambe, che fino ad allora erano considerate la parte del corpo più scandalosa e volgare; l’essere pratiche nel muoversi e il rivendicare una nuova sessualità, furono segno di una vera e propria vittoria per l’emancipazione delle donne. Le donne poterono finalmente dimostrarsi nuovi “soggetti” all’interno della società rivoluzionaria degli anni Sessanta e non più come “oggetti”. Quella della minigonna è stata quindi una storia inizialmente dettata dalle donne, dai loro bisogni e dalla rivendicazione delle loro libertà.

Tuttavia, molte sono state le critiche verso l’uso della minigonna, in primo luogo da parte di alcuni Stati occidentali, che hanno provato anche a vietarla, poiché considerato un capo troppo corto e che rischiava di porre le donne in situazioni di pericolo, quali atti di violenza sessuale. Trovo molto azzeccata la riflessione di Mary Quant a riguardo: “Nelle nazioni europee dove vengono vietate le minigonne nelle strade, dicendo che sono un invito allo stupro, non comprendono l’uso delle calze”. La donna aveva trovato nella minigonna un modo per autodeterminarsi e scrivere la propria storia in un mondo che non la voleva al centro.

Se in un primo momento la minigonna era stata simbolo di emancipazione e libertà, nonché di conquista di indipendenza, successivamente anche alcune femministe iniziarono a criticarne l’uso eccessivo come volontaria forma di provocazione, fortemente legata alla visione della “donna-oggetto”. A partire dagli anni ’70, infatti, si moltiplicarono le pubblicità in cui le modelle apparivano in minigonna o abiti molto corti, che ponevano l’attenzione verso la donna stessa, sessualizzandola, anziché sul prodotto da vendere. Allo stesso modo, l’industria culturale (cinema, tv) approfittarono del successo della minigonna per rafforzare il mito delle sex-symbols, come per esempio Marylin Monroe, Brigitte Bardot o Sophia Loren per citarne alcune, che diventarono modello di bellezza e sensualità femminile, riportando la donna al valore di “oggetto”.

La minigonna perse quindi nel tempo quel valore di ribellione e di lotta che era stato per le giovani donne degli anni Sessanta, quella volontà di rompere con il passato e immaginarsi un futuro diverso, più libero.

Perché ho voluto raccontare la storia della minigonna?

Perché la moda può essere ed è motivo di espressione, sia personale, sia di genere, e credo sia importante anche per noi donne del 2024 pensare e riflettere sul perché ci sia sempre più, non so se definirla moda o necessità, di “svestirsi”. Per questo motivo mi interrogo su cosa possa significare per le ragazze di oggi il bisogno di “mostrare” il proprio corpo e “mostrarsi”, esattamente come lo è stato nella storia della minigonna.

In questi giorni in cui (finalmente) arriva il caldo, sono molte le ragazze che incontro e che vedo indossare abiti sempre più corti. Questa è però una tendenza che ho notato non solo ora, che le temperature iniziano ad alzarsi, ma è diventata la normalità tutto l’anno: le ragazze si vestono sempre meno e tendono a mostrare molto di più il proprio corpo. Premetto che non sono un’amante dello shopping, ma quando vado al centro commerciale, noto che l’abbigliamento femminile, soprattutto nei negozi di fast fashion, si sta restringendo ed accorciando sempre di più, segno che anche la moda ci sta dicendo qualcosa. Che sia una tendenza volta all’emancipazione, ne ho dei seri dubbi, poiché da questo punto di vista ci hanno pensato appunto le nostre nonne e bisnonne. Noi in qualche modo abbiamo trovato già tutto pronto. Eppure, come già detto, il modo di vestirsi e presentarsi è una forma di espressione, per cui mi chiedo: cosa vuole comunicare un’adolescente o una ragazza che va in giro con la pancia “di fuori”, o con pantaloncini e gonne che appena coprono il sedere?

Un ruolo fondamentale, a mio parere, lo gioca la consapevolezza. Io dubito fortemente che le ragazze, soprattutto le adolescenti, si vestino così in modo consapevole. Per loro forse è più semplice seguire la moda, senza chiedersi il perché. Le adolescenti sono in una fase della vita, in cui con il loro corpo ci stanno ancora facendo i conti, l’insicurezza è molta ed è la fase, credo, più importante in cui iniziare a costruire un vero e proprio rapporto con il proprio corpo. Vedere costantemente i corpi delle altre, può portare ad aumentare l’insicurezza, nonché forse complicare il processo di conoscenza del proprio sé fisico, poiché si è costantemente in confronto – e forse anche in competizione – con il corpo delle altre. Attraverso questo modo di vestirci, il rapporto con il nostro corpo cambia, perché è costantemente esposto al mondo esterno e all’altro, anche sconosciuto. La consapevolezza passa, quindi, dal presupposto che si è prima di tutto un corpo, che può essere visto, toccato, sentito.
Esporre il proprio corpo in modo così eccessivo ed inconsapevole, può portare, a mio parere, ad indebolire il contatto con la propria intimità. L’intimità, oltre ad essere un ambiente in cui c’è confidenza e vicinanza, fa anche riferimento alla propria interiorità. Anche il rapporto con il proprio corpo è in qualche modo qualcosa di intimo e, se ci si pensa, sono poche le persone che hanno la possibilità di entrare nella nostra intimità, non solo fisicamente parlando. Decidere quindi cosa esporre del proprio sé all’altro, non può basarsi, secondo me, su una moda, ma dovrebbe essere un processo personale e di crescita, che permetta alla persona di decidere in modo consapevole quanto mostrarsi.

Ed è a partire da questa consapevolezza che sta il rovescio della medaglia: la bellezza di esprimersi, di sentirsi libere, di mostrarsi, di stare bene con il proprio corpo, di sentirsi belle e sensuali. La bellezza e il coraggio di mostrare agli altri ciò che siamo, andare oltre i giudizi e costruire quella confidenza con la nostra intimità, per poi uscire nel mondo che ci circonda e costruire nuove relazioni con l’altro.

Se pensiamo ancora una volta alla storia della minigonna, le donne dell’epoca sapevano cosa volessero dimostrare attraverso quel capo d’abbigliamento: mostrare il proprio corpo per la conquista di una maggiore libertà. E noi, in che direzione vogliamo andare?

Camilla Ferello

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