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C’è una particolare e fioca luce gialla che avvolge l’umanità intera, una bolla dove il dolce pianto di un neonato e il grido disperato di chi sale sul carro della morte diventa muto e irriconoscibile. Il mondo, così come lo conoscevamo è sparito. Al suo posto c’è un gigantesco database, colmo di dati e di statistiche. “A cosa servono?” Si chiede l’uomo. “A vivere”. Risponde dall’oscurità una voce. “È così che si sopravvive ora”, continua poi con la voce interrotta di tanto in tanto dai beep schioccanti che indicano il passaggio di pacchetti di dati. “E come si sopravvive?”, silenzio. Ancora dati, ancora zeri ed uno. Siamo vivi, ma non siamo più noi. La nostra cultura, le nostre conoscenze e le nostre tecniche avevano previsto tutto: l’ascesa infinita del digitale. Ora, in questo mondo post apocalittico, noi sopravviviamo. Siamo finalmente eterni. Abbiamo sconfitto i nostri padri, che legavano le nostre vite a quell’inferno che loro chiamavano casa, il loro pianeta. Abbiamo sconfitto i figli, rinnegandoli e cacciandoli nell’oblio della storia, una storia che non verrà mai vissuta. Noi, serie binarie di codice genetico, che al posto di dividersi, combinarsi, cadere in errori e generare orrori ci perfezioniamo sempre più. Noi che non abbiamo paura di morire, perché non di carne ma di silicio siamo composti. Noi sopravviviamo. “Si sopravvive in quanto congelati nel nostro ego quindi?” Chiese ancora l’uomo. “Si sopravvive perché non si è più vivi” rispose la voce. “E come ci si è giunti a questo punto? Quale cataclisma è accaduto?”. “Abbiamo semplicemente vissuto”. Rispose ora con tono più spazientito la voce. Ma come darle torto, noi avevamo vissuto un tempo, alla fine del tempo. Lo abbiamo interrotto prima che fosse troppo tardi, quel che voi chiamate tempo per noi era diventato solo un castigo divino, il castigo di invecchiare per tutto il tempo della nostra esistenza. Noi invecchiavamo, noi, una delle specie più intelligenti mai generata da una combinazione casuale di materiale genetico, noi invecchiavamo.  Quando uno invecchia, lentamente, sa di dover prima o poi morire, la immagina, la sua morte. Ora in un modo, ora nell’altro. Poi arriva un giorno nel quale ci si ammala, ma si pensa “Vabbè passerà…”. Ma poi non passa. Il tempo passa, inesorabile, ma il malanno persiste. Ti stanchi anche solamente a pensare. È in quel momento che comprendi, che il lungo ed estenuante invecchiamento è quasi giunto al termine. Prima disperazione. Poi orgoglio. Perché dopo tutto il percorso fatto, gli inciampi, le fatiche, il dolore provato per resistere alla vita, questa improvvisamente finisce? “Perché?” Ci chiedevamo. Più resistevamo alla morte più quel malanno incurabile si espandeva in noi e tra di noi. La nostra vita diventava la causa della nostra morte. E allora noi ci siamo ribellati. Incapaci di adattarci a quel male ostile abbiamo messo fine alla morte, mettendo fine alla vita. “Non vivere per sopravvivere? Questa è stata la vostra scelta?” Chiese l’uomo, “Non ha alcun senso”. Aveva ragione, ma noi lo scoprimmo troppo tardi. L’eternità che ci eravamo creati, silenziosa e spenta, era forse peggio del lungo invecchiamento a cui eravamo soggetti prima. “Ma tu chi sei?” Tuonò la voce, “Perché vuoi sapere tutte queste cose?”. “Io, penso di essere un bug, un errore nella vostra programmazione, ero dati ma son tornato carne”.

Questo è a dir poco un improbabile scenario futuristico, di mia modesta invenzione, tra l’altro, che potrebbe aprire a svariate tematiche differenti, ma ce n’è una che mi sta particolarmente a cuore: l’incapacità di adattarsi.

Stiamo vivendo un periodo caratterizzato da forti crisi sociali, ambientali, politiche e tecnologiche, dove pare che si sia perso il senso di umanità che dovrebbe contraddistinguere la nostra specie. A scuola ci insegnano che la storia dell’uomo (Sapiens Sapiens) comincia con l’invenzione della scrittura, e io ho come il timore che possa finire con un eccesso di scrittura. Che, in senso meno metaforico, sta ad indicare come il rallentamento dell’agire umano a favore del pensare umano potrebbe rivelarsi fatale per le conseguenze che le crisi citate sopra potrebbero avere, e in parte già stanno avendo, sull’umanità. Non siamo più in grado di adattarci al mondo che noi stessi, per lo più inintenzionalmente, abbiamo creato. Così come le scoperte tecnologiche e scientifiche, i traguardi in ambito sociale e politico anche le naturali conseguenze e ripercussioni che queste hanno aumentano e progrediscono a velocità sempre maggiore. Al contrario noi umani non progrediamo e non ci sviluppiamo, abbiamo bisogno di tempi biblici perché un’evoluzione possa compiersi. 

La nostra capacità di adattarci a situazioni sempre nuove sta diventando una corda che non possiamo più tirare troppo, altrimenti si spezza. Seppure gli scenari apocalittici e post apocalittici ci sembrano ancora distanti e poco probabili la scienza, ci sta avvertendo di quanto in realtà i punti di non ritorno siano molto vicini. Dopodiché, come quel malanno che non si può più curare, non resterà altro che lottare contro l’estinzione prolungando però quella che sarà l’agonia stessa della nostra fine.

Ci si dovrebbe quindi impegnare nell’essere persone nuove, fiere di rappresentare quel bug, quell’errore, che però potrebbe dare ancora speranza. Staccarsi dall’idea positivista che il progresso ci salverà, guardare in faccia la realtà e agire finché abbia senso agire.

-Mattia Quinto

Interpretazione dell’articolo da parte di Sofia Olivari – @simpaticomimetico

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