Cosa unisce Twitter, Trump e Talebani?

Vista l’eredità che l’ormai lontano 2020 gli ha lasciato, il 2021 è iniziato, senza ombra di dubbio, sotto la lente d’ingrandimento della pandemia. Ma come spesso accade, quando una cosa sta andando male, ma tanto male, solo qualcosa di peggiore può distrarre le persone dalla prima. Così è successo a noi, che mentre ci apprestavamo a conoscere il colore della nostra regione siamo stati travolti dalle vicissitudini legate alle elezioni statunitensi.

Trump, dopo quattro anni di presidenza, doveva misurarsi con il suo avversario democratico: Joe Biden. Ma forse, e in maniera ancora più platonica, doveva misurarsi con se stesso. La sua politica violenta, volta alla disinformazione e che poneva la forza sopra la ragione, era stata in grado di spianare la strada per la sua rielezione? Lui ne era convinto, molto convinto, al punto che, risultati alla mano, lui e i suoi seguaci hanno urlato allo scandalo, al broglio.

L’unico imbroglio probabilmente è stato quello verso se stesso, che si tratti di effetto Dunning-Kruger o altro poco cambia: ha perso e, almeno mediaticamente, non lo ha accettato. La sua protesta, messa in atto sui social e sostenuta dal gruppo complottista di estrema destra QAnon, ha poi portato al preannunciato attacco a Capitol Hill del 6 gennaio 2021.

Il fatto che la propaganda di Trump e di QAnon si sviluppi quasi esclusivamente sui social non è di poca rilevanza: infatti, per fermare l’ondata di proteste di stampo antidemocratico è stato inizialmente  chiesto all’ex presidente di non fomentare le stesse via Twitter. In seguito, visto lo scarso successo delle richieste, è stato il social stesso ad intervenire: prima segnalando i tweet come informazioni fuorvianti, poi bloccando ed eliminando definitivamente il suo e altri account dal comportamento affine.

Per la prima volta nella storia, l’account di un presidente degli Stati Uniti d’America veniva bloccato per disinformazione e istigazione alla violenza. (Qui il rapporto ufficiale di Twitter) Ridurre, però, la propaganda di Trump e QAnon a Twitter è alquanto fuorviante, considerando che l’organizzazione sovversiva ha sfruttato diverse piattaforme, tra le quali Facebook, il forum TheDonald, canali Telegram, Parler e perfino TikTok per raggiungere le persone. Una fitta rete che, oltre a fomentare i già caldi spiriti, “intrappola” chi non riesce più a fidarsi né dei media tradizionali né della classe dirigente moderata.

Qualche mese più tardi, come la seconda stagione di una serie tv di cui ci ha deluso il finale di stagione precedente e che non vorremmo vedere: altri attacchi, altri morti, altra propaganda social, altri account bloccati. Questa volta gli indirizzi IP fanno riferimento ad un’altra parte del globo, così lontana ma così vicina a quella di cui si è parlato in precedenza: l’Afghanistan. Nel Paese hanno ripreso da poco il potere i talebani, grazie soprattutto al ritiro delle truppe da parte degli americani, voluto dall’amministrazione Trump e proseguito con quella Biden. Questo ha infatti generato un effetto domino, che si è concluso con la conquista di Kabul, e quindi del governo centrale, da parte del gruppo estremista e la fuga delle forze occidentali e dei cittadini moderati.

Solitamente, nel caso di regimi totalitari o simili, è la stessa forza detentrice del potere che si impegna a vietare i social media ai cittadini, con lo scopo di controllare l’informazione circolante ed annullare ogni voce di opposizione. Si prenda ad esempio il caso cinese, dove il Partito Comunista Cinese ha creato un proprio ecosistema mediatico chiuso per ripararsi da eventuali voci dissidenti provenienti dall’interno o da altre parti del globo. Qualcosa di analogo era successo anche in Afghanistan quando, tra il 1996 e il 2001, sempre sotto il regime talebano venne vietato in toto l’uso di Internet.

Il mondo, e soprattutto Internet, è cambiato radicalmente da allora e i social sono passati dall’essere una minaccia alla quale sbarrare ogni accesso, ad essere una perfetta arma di propaganda per il regime. Se però Facebook e YouTube hanno vietato la condivisione dei contenuti da parte degli account appartenenti o affiliati ai talebani lo stesso non vale per Twitter, che al momento si limita solo ad osservare. Questo atteggiamento è dovuto alle molteplici contraddizioni che, sia gli stessi U.S.A. sia la comunità internazionale, hanno creato attorno al nuovo regime.

Annunciando l’uscita della sua nuova piattaforma privata, Truth Social, Trump ha accusato Twitter e le big tech di favorire i talebani e di aver, ingiustamente, bloccato lui; lui che nel febbraio 2020 con i talebani aveva potuto trattare (Accordi di pace di Doha), proprio grazie al fatto che il dipartimento di Stato americano non riconosce il gruppo islamico come gruppo terroristico. Il mancato riconoscimento legittima di fatto Twitter ad attenersi alle proprie policy, e a gestire autonomamente il traffico di quegli account. Senza considerare che quegli stessi Accordi di Doha, nei quali manca un chiaro riferimento al futuro del Paese e dei suoi cittadini, mettono i talebani nella condizione di poter essere riconosciuti come legittimi detentori del potere dalla comunità internazionale.

Il cerchio sembra quindi chiudersi ma rimangono sicuramente aperti molti interrogativi rispetto al potere che hanno e che concedono, o meno, i social network privati. La loro pericolosità va di pari passo con la necessità della loro esistenza, almeno nel mondo così come lo conosciamo oggi.

-Mattia Quinto

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