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Chi ha paura del Metaverso?
“The Metaverse and How We’ll Built it Together” è il titolo del video Youtube dello scorso 28 ottobre con cui Mark Zuckerberg – CEO dell’azienda Meta – annunciava la sua visione per il futuro di Internet. Ben 87 minuti in cui una delle personalità chiave delle trasformazioni digitali dell’ultimo ventennio si mette in primo piano, con l’aria di un giovane profeta, per aprirci uno spiraglio verso un Mondo Nuovo, di cui si fa egli stesso traghettatore. “Non temete” – sembra suggerirci – “vi ho accompagnato fino ad ora fra le meraviglie della rete sociale online, questo è solo un ulteriore, inevitabile, passo verso un domani più efficiente ed equo”.
In fondo Mark non ha tutti i torti, il Metaverso non è la bomba atomica di distopia che ci piace immaginare piombata all’improvviso dal cielo, bensì una semplice evoluzione di un fenomeno a cui stiamo partecipando, volutamente o meno, da ben più tempo.
Il termine “metaverso” appare per la prima volta nel romanzo del 1992 Snow Crush di Stephenson, e indica in generale un intreccio tra Internet e un mondo virtuale tridimensionale, parallelo alla vita reale, a cui si può accedere tramite dispositivi di realtà aumentata.
Esempi di metaverso sono i videogiochi MMORPG, in cui centinaia di utenti possono connettersi contemporaneamente tramite internet e agire nel mondo attraverso avatar virtuali, entrando in contatto tra di loro. Un caso esemplare, e più peculiare, è quello di Second Life, piattaforma nata nel 2003, dal nome altamente esplicativo: in questo spazio immateriale è possibile vivere un’altra esistenza, una copia di quella reale, senza obiettivi specifici o narrative di gioco con cui confrontarsi. In Second Life è possibile partecipare a diversi eventi culturali, socializzare con gli altri utenti, scambiare con essi beni o servizi e utilizzare una valuta virtuale, i Linden Dollars, che crea un sistema economico interno, comunicante con quello della vita reale tramite la possibilità di cambio con dollari ed euro.
Il Metaverso idealizzato da Zuckerberg prende forma da questi precedenti, ma fa un passo ulteriore, basato sul nuovo rapporto con la tecnologia del moderno cittadino digitale.
Ad oggi non ha forse più molto senso una distinzione dicotomica tra vita virtuale e vita reale, poiché l’una ha contaminato inesorabilmente l’altra, creando un continuum da cui è difficile estraniarsi. Negli anni della pandemia questa compenetrazione ha raggiunto un apice senza precedenti e non ci risulta più anomalo svolgere le nostre funzioni di cittadini in uno spazio fornito da una piattaforma digitale. Tutte le misure emergenziali per far fronte all’impossibilità di uscire di casa e interagire di persona (smartworking, didattica a distanza, videochat) sono diventate presto normative e anzi il loro abbandono incontra talvolta resistenze significative.
Abbiamo imparato a percepire l’offerta digitale come una comoda scappatoia al peso cognitivo della vita sociale, anche perché in fondo non è tanto diversa sul piano qualitativo da quella esperita nell’epoca pre-Covid. Per questo motivo oggi sembra esserci terreno fertile per la creazione di un cosmo virtuale unificato in cui poter svolgere quelle stesse attività, anzi con il valore aggiunto di poter evitare di saltare da una piattaforma all’altra. A questo proposito, il Metaverso si proporrebbe come una soluzione alla frammentarietà tipica dell’individuo post-moderno, incentivata dal gioco di moltiplicazione identitaria richiesto dall’utilizzo di diversi e variegati servizi online. Un’unica porta d’accesso ad un mondo in cui è possibile rispondere ad ogni proprio bisogno, liberandosi dai limiti del proprio corpo per elevarsi a flusso di dati libero di viaggiare ovunque e plasmarsi come più serve.
Per un’esperienza maggiore di interattività e immersività è previsto l’utilizzo dei visori per la realtà virtuale (VR), prodotto in cui Meta stessa ha largamente investito e di cui è produttrice, con un recente traguardo di 14,8 milioni di unità vendute dal lancio di ottobre 2020.
Pur essendo comune un certo scetticismo sulla possibile diffusione su larga scala dei dispositivi VR, a causa del prezzo e della scarsa abitudine di utilizzo, è innegabile che tale mercato stia crescendo in maniera costante e stia mettendo radici nella fascia dei tech enthusiasts di tutto il mondo. Ricordiamo insomma che non viviamo più nello stesso mondo in cui sono falliti i Google Glass (occhiali per la realtà aumentata, lanciato nel 2013) e che i ritmi di adattamento alle nuove tecnologie sono oggi ben più veloci.
La costruzione del Metaverso non sembra quindi tanto più fantascientifica di quanto siamo già abituati a vivere, ma sicuramente rappresenta un progetto più coeso e cosciente di sé e delle proprie capacità di influenza.
Saremo pronti a quest’inevitabile nuova era dell’Internet? Se a preoccupare sono le scarse capacità di valutazione delle informazioni e la difficoltà di autocontrollo di fronte ad un meccanismo di reward istantaneo tipico del virtuale (retaggi dei nostri giorni primitivi da cacciatori-raccoglitori, mai realmente conclusi dal punto di vista dell’evoluzione biologica), a far scattare i campanelli dall’allarme dovrebbe essere ancora di più il rischio di accumulo di un potere spropositato, che passa attraverso i dati, da parte delle aziende del Metaverso.
Dati utilizzabili e utilizzati non solo per piazzare annunci pubblicitari estremamente personalizzati, ma per orientare subdolamente le opinioni, rinforzarle costantemente grazie all’oscuramento di punti di vista contrastanti e arrivare così ad una polarizzazione sempre maggiore del pubblico.
Ancora una volta, nulla di nuovo sotto il cielo, ma non per questo bisogna rinunciare ad uno sguardo critico. Non sottrarsi ai cambiamenti, impresa impossibile in una società interconnessa come la nostra, ma soppesare la propria partecipazione e riappropriarsi del peso sociale di ognuno per difendere la propria libertà individuale, che sia nel “mondo vero” o in quello virtuale.
Angela D’Addio
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