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NAOTB – New Addictions on the Block
Lo scorso 8 dicembre 2022, la corte suprema del Québec ha autorizzato una causa a un’azienda di videogiochi, un’azione basata sulle richieste di un gruppo di genitori e della loro avvocata, Alessandra Esposito Chartrand. L’accusa è piuttosto semplice e chiara: alcune dinamiche di gioco sono state volutamente progettate in modo da risultare “addictive”. In italiano, dovremmo spingerci a dire che sono “in grado di indurre dipendenza” o altro di simile, ma il concetto è ovviamente chiaro: siamo di fronte ad una svolta importante nel dibattito su pregi, difetti, rischi (ecc., ecc., ecc.,…) legati al paradigma digitale.
Soltanto una decina di giorni più tardi, infatti, la stessa azienda ha dovuto sborsare oltre mezzo miliardo di dollari (520 milioni!) come risarcimento per l’utilizzo dei dati dei giocatori, in particolare di quelli minorenni. Questo a causa delle pratiche scorrette legate alle vendite on-game portate avanti dall’azienda, ma anche dello sfruttamento non autorizzato delle identità dei giovanissimi al fine d’aumentare la diffusione del gioco.
Evitando la retorica semplificante, tanto accusatoria quanto assolutoria, rimane il fatto che la questione è molto interessante e profondamente significativa, anche considerando il silenzio dei media italiani e quello che implicitamente “aggiunge” al discorso. È una questione importante, diremmo “fondamentale”, perché rappresenta qualcosa che nel prossimo futuro non potrà che estendere il proprio campo d’analisi, la propria influenza e, auspicabilmente, la capacità di promuovere discussioni aperte e informate. Siamo di fronte a una piccola svolta storica, quella per cui stiamo finalmente cominciando a guardare “dentro” la scatola nera della cultura contemporanea, nonché a decostruirne uno dei pilastri fondamentali e tra i meno compresi, quello del “reale-valore-dei-videogiochi” rispetto al panorama socioeconomico globale, ancor prima che mediatico. Capire meglio i videogiochi non significa, infatti, frequentare giocatori professionisti, neppure diventare videogiocatori in prima persona, ma osservare meglio le nostre pratiche quotidiane e riflettere meglio su cosa facciamo, e come, con i nostri amati dispositivi digitali.
Molto interessante potrebbe risultare anche il fatto che lo studio legale che si sta occupando della causa, la Calex Legal di Montrel, abbia scelto come linea quella di considerare i videogiochi esattamente alla stregua delle sigarette prima del riconoscimento della loro nocività. E prima che venisse inequivocabilmente dimostrato come le aziende produttrici non solo ne fossero al corrente, ma ne promuovessero esplicitamente il valore al fine di massimizzare le vendite. Che i videogiochi creino dipendenza capita di sentirlo dire da almeno trent’anni, ma le cose stanno cambiando e, tra qualche tempo, potremmo vedere strani adesivi, o immagini un po’ inquietanti, sulle scatole delle console, sui DVD e, ovviamente, all’apertura delle rispettive schermate delle nostre App preferite. È digitale? Allora può (decisamente) nuocere alla salute ;o)
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