L’amica nemica

Un po’ di tempo fa, in un periodo in cui sono stata mentalmente molto bloccata e non sapevo cosa scrivere, ho riletto la lettera che ho caricato su questo sito e che è stata la scintilla che mi ha fatto rendere conto che avevo bisogno e voglia di scrivere. Prima di allora, non avevo mai visto la scrittura come qualcosa che potesse diventare un lavoro, poiché l’ho sempre considerata un modo estremamente personale di comunicare. Attraverso la scrittura, infatti, ho sempre rielaborato i miei pensieri e ho sempre espresso i miei sentimenti verso gli altri (quelli che mi conoscono sanno bene che per le occasioni importanti le mie letterine sono d’obbligo). Eppure, ci sono delle cose di cui non riesco a scrivere, emozioni che faccio fatica ad esprimere, ma che sento essere lì sempre presenti. Me ne sono resa conto rileggendo anche alcuni degli altri articoli che ho scritto e credo ci sia un’emozione di fondo che più o meno li collega, o comunque ne collega una buona parte: la rabbia.
Mi sono quindi ingegnata per capire prima di tutto da cosa derivi questa emozione, perché la proviamo e come possiamo gestirla. Mi sono scontrata con diversi studi psicologici, le cui spiegazioni scientifiche, tuttavia, non mi hanno lasciata particolarmente soddisfatta. Ho imparato però che, in generale, la rabbia è un’emozione universale all’interno dell’esperienza umana, cioè è riconosciuta e provata da ogni essere umano – tutti ci arrabbiamo, nessuno escluso. Le emozioni, inoltre, hanno prima di tutto una funzione adattiva: ciò significa che sono delle “risposte coordinate dei sistemi cognitivi, fisiologici e comportamentali ai cambiamenti dell’ambiente”. La rabbia, per esempio, risveglia in noi l’istinto di difenderci per sopravvivere nell’ambiente in cui ci si trova, nel rispondere ad un’ingiustizia, a un torto o alla percezione della violazione dei propri diritti. Tuttavia, la rabbia – così come tutte le altre emozioni – è fortemente influenzata dalla percezione della situazione in cui si è coinvolti. Questo stato emotivo è quindi soprattutto determinato dal significato che la persona attribuisce agli eventi ed è in questo modo, quindi, che la rabbia può diventare disadattiva: essa viene affrontata ed espressa in modo controproducente, sia verso sé stessi, che verso gli altri, creando sofferenza, compromettendo le relazioni sociali e spingendoci a compiere azioni dannose. Si può dire, quindi, che la rabbia sia sì universale, ma i fenomeni scatenanti, l’intensità e la sua gestione sono diversi per ognuno di noi. C’è chi, infatti, si arrabbia spesso e volentieri, chi “non si arrabbia mai”, chi sbraita, chi ti inveisce contro, chi diventa tutto rosso in viso, chi alza il tono della voce, chi diventa particolarmente aggressivo e chi, invece, sta in silenzio e cerca di reprimerla o nasconderla.
Come scritto precedentemente, tutte queste spiegazioni non mi sono state di grandissimo aiuto, se non per il fatto che ora ho delle basi scientifiche per cui posso affermare di essere una di quelle persone che “non si arrabbiano mai, ma quando si arrabbiano, fanno strage”. Quel tipo di persona in cui riposa una rabbia latente che prima poi verrà fuori e che farà male sia a sé stessa, che agli altri. Rileggendo i miei articoli, tuttavia, credo di aver riconosciuto due rabbie leggermente diverse: una che deriva da una situazione totalmente personale, mentre l’altra da una situazione collettiva. Chiaramente non starò qui ad annoiarvi con i miei problemi (l’avete scampata), ma è chiaro che il mio modo soggettivo di affrontare la rabbia è lo specchio di quello che accade in ambito collettivo. Sono una persona che, per l’appunto, tende a reprimere la propria rabbia, non la esterna in alcun modo, nemmeno scrivendo. La reprimo finché non arriva un fattore scatenante a farla esplodere e a farmi perdere il controllo su me stessa, sui miei pensieri e i miei sentimenti. Tuttavia, non lascio che la rabbia scorra, non lascio che si sfoghi (insomma, potrei risolvere tutto con una bella litigata o una bella sfuriata, ma evidentemente non ce la faccio), bensì mi chiudo, la tengo per me e mi sforzo a reprimerla ancora di più. Non so perché faccio così, a volte vorrei davvero riuscire a sbraitare contro qualcuno, a dire ciò che penso, ma non ce la faccio. Sono letteralmente un’altalena che oscilla tra momenti di autocontrollo e momenti in cui lo perdo. E sono ben consapevole che questo è un grandissimo spreco di energie: la rabbia ha una forza propulsiva immensa, utilizza tantissime energie fisiche e mentali e imparare a reindirizzarle, a usarle in maniera creativa, può portarci a fare cose pazzesche.
Cosciente di ciò e ancora in cerca di risposte, mi sono ricordata di un libro che avevo letto un paio di anni fa e che, rileggendolo, mi ha letteralmente folgorata, dandomi le risposte che stavo cercando. Il libro si intitola Liberati della brava bambina, di Andrea Colamedici e Maura Gancitano, e racconta otto storie di donne, protagoniste della mitologia, di film e serie tv, che portano alla luce diversi aspetti di quello che viene chiamato il problema senza nome e cioè di come i condizionamenti sociali influenzano la vita delle donne. Attraverso queste storie, anche se non sono realmente accadute, Andrea Colamedici e Maura Gancitano mostrano – e dimostrano – che noi donne siamo accomunate tutte da una stessa storia, da una stessa genealogia e che, purtroppo, questa storia non è tutta rose e fiori, ma è caratterizzata da sottomissione, violenza, abuso, silenzio. Tutte noi, in qualche modo, ci portiamo dentro la storia di coloro che sono venute prima di noi, “nella gioia”, ma soprattutto “nel dolore” di coloro che hanno lottato per la propria libertà e realizzazione. Alcune delle nostre paure personali, infatti, sono condivise da molte di noi: la paura di non riuscire a raggiungere i propri obiettivi, la paura che ci saranno sempre ostacoli in mezzo alla nostra strada, la paura che ci tappino la bocca, la paura che non verremo prese sul serio, la paura di prenderci troppi carichi sulle spalle. Tuttavia, noi continuiamo a subire tutto questo, vittime di una narrazione che ci impone di rimanere in silenzio. È impossibile negare che la società odierna continui ad imporci dei condizionamenti, degli standard che ormai, però, devono essere superati e che ci diano la possibilità di essere trattate, prima di tutto, come esseri umani. Perché è anche di questo che spesso non si parla: le imposizioni sociali a cui siamo sottoposte non ci permettono di esprimerci nel nostro vero potenziale, non ci permettono di esprimerci in quanto portatrici innanzitutto di valore, che sia esso economico, sociale, culturale o semplicemente umano. Anzi, la società è talmente avanzata che ha pensato per noi tutti i tipi di hobby possibili ed immaginabili: diventiamo influencer sui social, ci compriamo mille prodotti o mille vestiti per riempire armadi e armadietti, facciamo diete per essere sempre più magre, ci spacchiamo di sport, tutto per arrivare a quegli standard sociali che ci vengono imposti. Il prezzo da pagare, però, è la perdita di noi stesse e del nostro valore umano. Gli esempi appena elencati sono presenti anche nell’introduzione del libro e sono la risposta ad una questione che mi sto ponendo da mesi: il fatto che, ragazze mie, siamo profondamente distratte. Siamo distratte nel seguire questi standard come fosse una gara a chi ce la fa prima e meglio delle altre. Siamo distratte da una società che ci sta dando qualsiasi contentino vogliamo, pur di essere felici nelle nostre bolle e di stare in silenzio, senza disturbare lo status quo. Siamo distratte da una società che ci chiede di contenerci, di non essere “troppo”, ma che alla fine ci porterà solo a non essere mai “abbastanza”: ci chiede di essere madri, ma non troppo, perché dobbiamo anche essere lavoratrici, anche se non saremo mai abbastanza madri e mai abbastanza autonome; dobbiamo essere economicamente indipendenti, ma non non saremo mai abbastanza “maschi” per esserlo. Non possiamo essere troppo belle perché altrimenti diventiamo zoccole, ma neanche troppo brutte perché altrimenti non ci calcola nessuno e quindi belle non lo saremo mai abbastanza. Non possiamo essere troppo magre, ma neanche troppo grasse e alla fine non saremo neanche magre abbastanza. Ora capiamo che oscilliamo costantemente tra una convenzione sociale e l’altra, sentendoci costantemente incomplete. Ciò accade perché perdiamo di vista noi stesse, ciò che ci piace fare, i nostri valori e il diritto di scegliere ciò che ci piace senza che ci venga necessariamente imposto da qualcun’altro. E questo senso di incompletezza mi fa estremamente arrabbiare.
E a proposito della nostra amica rabbia e al libro citato precedentemente, questa è proprio uno degli aspetti di questo problema senza nome. Essa viene definita come “un’emozione latente”, sempre pronta ad esplodere, nonostante la donna tenda a reprimerla e a nasconderla: è “un tarlo interiore, un meccanismo incessante che lavora dentro di lei e che continua a farle male, senza smettere mai.”. E ci chiediamo costantemente se sia realmente così, se questa rabbia incessante che ci portiamo dentro non se ne andrà mai. Andrea e Maura, per provare a darci una risposta, snocciolano la storia di Malefica, la quale è stata recentemente reinterpretata nel film Maleficent.
Il film tratta della storia mai raccontata della Bella addormentata nel bosco: una storia piena di dolore, risentimento, sete di vendetta, rabbia. Sia nel classico Disney, che nel recente remake, Malefica, infatti, viene dipinta come la fata perfida, cattiva e profondamente arrabbiata. Ma da dove deriva tutta questa rabbia? Il film ci mostra che tutto il dolore e il risentimento provato da Malefica derivano da un tradimento, uno dei più potenti che una donna possa subire: Malefica, infatti, viene tradita dal ragazzo che diceva di amarla. Questo tradimento, tuttavia, non è solo personale, che ferisce i sentimenti provati per lui, ma è un tradimento che deriva da un sistema sociale in cui l’uomo preferisce seguire l’ambizione e la sete di potere, anzichè l’amore per un altro essere umano. Stefano, il ragazzo in questione, non solo le volta le spalle e la abbandona, ma le taglia letteralmente le ali. Il dolore di Malefica è immenso e il suo urlo “riporta a galla in noi tutto il dolore accumulato dalle donne che sono state tradite”, a cui sono state tagliate le ali. Il dolore provocato dal tradimento e dalla delusione diventa per Malefica una vera e propria “ossessione”, che la tiene costantemente legata al passato e che le fa sentire “come un peso dentro che le impedisce di volare”. Questo è il peso condiviso da tutte quelle donne che sentono dentro di sé esattamente quello stesso dolore. Un dolore non necessariamente legato ad un tradimento, ma che è strettamente influenzato da tutti quei condizionamenti sociali che non permettono alle donne di spiccare il volo e volare più in alto possibile: “Lei potrebbe essere un’aquila, invece è costretta a trascinarsi, a faticare per ogni cosa, come se avesse una mano che costantemente la spinge giù”.
Come affrontare quindi questa rabbia? La rabbia è un’energia, un combustibile e deve trovare una valvola di sfogo. Tuttavia, né sfogarla, né reprimerla sembrano essere le soluzioni adatte. Buttarla fuori risulta inutile, perché ci sentiamo buttare ancora più giù, perché sembriamo esagerate e non veniamo prese sul serio. Se invece cerchiamo di reprimerla, di essere docili e tranquille, la accumuliamo. Insomma, o esplodiamo o implodiamo, ma in entrambi i casi rinunceremo sempre a una parte di noi, quella parte universalmente riconosciuta, di cui noi donne non siamo prive, ma, citando dal libro la psicanalista Marina Valcarenghi, di cui siamo state private. E ci convinciamo “che non c’è nulla che possiamo fare per tornare davvero a quel che siamo, per recuperare ed esprimere nuovamente il nostro potere. E ci convinciamo che allora tanto vale passare il tempo a difendersi con le unghie dal nemico, dal cattivo, dall’oppressore, dalla causa del suo dolore: l’uomo”. Ed eccola qui, quella rabbia inspiegabile che nasce contro il genere opposto, quella rabbia latente che riemerge in tutte noi ogni volta che una donna viene uccisa, picchiata, insultata. È quella rabbia che ci unisce, ma che allo stesso tempo ci separa e Malefica è un esempio anche in questo. Se la rabbia non trova uno sfogo, infatti, il rischio è quello di riversarla sugli altri e così anche gli altri diventano succubi del nostro stesso destino. La competizione che nasce tra donne è fortemente legata alla rabbia che non viene affrontata, in quanto diventa carburante per esercitare quello stesso potere patriarcale degli uomini sulle altre donne. Le giovani generazioni di donne, per esempio, possono essere condannate alle stesse sorti delle loro madri, che non sono state in grado di ricucire le proprie ferite. Tuttavia, la competizione e la rabbia sfogata sulle altre, non fa che continuare a ferire le donne stesse, sia come soggetti, sia come gruppo. Malefica, infatti, riverserà tutta la sua rabbia su Aurora, bambina innocente, figlia di Stefano, ma che con le ragioni che hanno scatenato la rabbia di Malefica non ha nulla a che vedere. Per vendicarsi, Aurora viene condannata ad un destino crudele, eppure la vendetta non riesce a sanare quella ferita profonda, bensì ne ha provocata una di nuova.
Come si fa, quindi, a superare questo conflitto e contemporaneamente a recuperare il proprio potere personale? Bisogna imparare a trasformare la rabbia. Come già scritto, la rabbia è un’energia e dobbiamo imparare ad usarla in modo creativo. Audre Lorde, poetessa, scrittrice e attivista afroamericana, scrive che “ogni donna ha un arsenale ben fornito di rabbia potenzialmente utile contro le oppressioni, personali e istituzionali, che l’hanno generata” e se indirizzata verso la giusta direzione, può diventare una fonte di energia verso il progresso e il cambiamento. Nell’ambito di un’America ancora profondamente razzista, Audre afferma che “la rabbia delle donne può trasformare la differenza in potere attraverso l’intuizione. Perché la rabbia tra pari fa nascere il cambiamento, non la distruzione, e il disagio e il senso di perdita che spesso provoca non sono fatali, ma un segno di crescita.”. Dobbiamo imparare a riconoscerci anche in quei momenti in cui la rabbia può essere energia promotrice che porta alla cooperazione e alla solidarietà. Perché questo accada, serve raccontarsi, raccontare la propria storia da una parte e rivedere la storia collettiva dall’altra. Serve mostrare e dimostrare che un trauma non ci porta necessariamente nell’oblio, ma che invece ci lancia verso l’alto. È una forza che ci può dare la possibilità di reimpossessarci di quelle ali e spiccare il volo. “Trasformare la rabbia significa imparare ad esprimere la propria creatività, imparare ad ascoltare la propria parte profonda che chiede di essere espressa e raccontata.”. Forse è questo che sto cercando di esprimere in tutto questo tempo: la rabbia e l’indignazione che mi porto dentro come donna. Perché la narrazione riguardo alle donne continua ad essere sbagliata, estremamente svilente e superficiale. Non ci considera come esseri complessi, che hanno valori, ambizioni e desideri. Non rappresenta il nostro essere profonde, a volte complicate (e non che gli uomini non lo siano). A noi però non viene permesso essere più di ciò che la società ci dice di essere. Eppure, io mi sento profondamente incazzata.

Camilla Ferello

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